fotoracconti
I tetti rossi di San Salvi
Storia di una pazzia
"Guardo oppresso le rocce ripide del Falterona: dovrò salire, salire".
(Dino Campana, Canti Orfici, La Verna).
"Il basso profondo e infernale è la guida".
(Dino Campana, Quaderni).
"Poeta è Dino Campana, rinchiuso vari anni in manicomio."
"Si rese necessario l’invio nell'Istituto fiorentino di osservazione per le malattie mentali (San Salvi, ndr.). Vi entrò il 12 gennaio 1918. Il 28 passava nell'Asilo di Castel Pulci, cinque miglia verso ponente. Aveva trentadue anni."
Carlo Pariani, psichiatra del manicomio di Castel Pulci, riportò i colloqui avuti col poeta nella Vita non romanzata di Dino Campana. Confermò la diagnosi di ebefrenia, una forma incurabile di malattia schizofrenica.
Lo chiamavano "tetti rossi" per via delle tegole che svettavano aldilà della cinta muraria. L'ospedale psichiatrico di San Salvi inaugurò il 9 settembre 1890.
"Anche la colta e gentile capitale della Toscana ha un nuovo e grandioso manicomio", annunciò il dottor Algeri nel discorso inaugurale. All'epoca Firenze contava 170mila abitanti, vi sono state rinchiuse 4mila persone: si deduce che c'era un "matto" ogni 40 fiorentini.
La "Legge Bianchi" ("Legge sui manicomi e gli alienati" del 1904) stabilì che «debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo».
Alla vigilia della Grande Guerra risultano attivi sul territorio nazionale 59 manicomi pubblici (3 dei quali giudiziari), 30 manicomi privati, 31 istituti dedicati al ricovero degli alienati e 4 istituti per disabili.
Le condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano i "mentecatti" erano terribili. Ammassati nelle brande, nelle corsie o nelle celle di contenzione erano bersaglio di malattie come il colera, il vaiolo, la tubercolosi o la polmonite.
In un anno in manicomio moriva il 10% dei ricoverati, l'aspettativa di vita dei degenti era di soli 47 anni.
San Salvi fu intitolato a Vincenzo Chiarugi, figura di rilievo nella psichiatria, autore di un celebre trattato in cui spiegava come il "folle" dovesse essere inserito in una struttura artificiale, ordinata e rigorosa, da opporsi alla malattia mentale intesa come "disordine delle passioni".
Il gigantesco manicomio fu progettato da Giacomo Roster insieme allo psichiatra Augusto Tamburini, come luogo per "dare ordine alle menti disordinate".
San Salvi era un villaggio a struttura ellittica, con "padiglioni avvicinati collegati da gallerie". Sull’asse minore erano collocati gli edifici dell’Amministrazione e dei Servizi generali. Da lì due gallerie parallele muovevano sino ai reparti destinati a "infermi e paralitici". I "furiosi" stavano nei padiglioni più esterni. Le strutture maschili a Ovest e quelle femminili a Est.
Un assetto razionale e gerarchico, espresso dalle fotografie degli Alinari, dove gli spazi hanno un rigore geometrico e persino i degenti sono in posa, impeccabili nell'accurata composizione.
I pazienti erano suddivisi in reparti in base alle condizioni di salute e a considerazioni morali ed economiche: tranquilli, infermi e paralitici, semiagiati, sudici ed epilettici, agiati, pensionario, sezione piccoli paganti.
A questi si aggiungevano i poveri (specialmente donne e ragazze madri), gli omosessuali, i dissidenti al regime fascista, gli alcolisti e gli altri diseredati e reietti.
Per molti anni i malati, vestiti per lo più di camicioni, vivevano a San Salvi in grossi cameroni protetti da sbarre e chiusi a chiave.
Avevano poche ore d'aria, limitate nei piccoli recinti ed erano controllati dall’alto dei camminamenti dagli psichiatri. Solamente i più tranquilli avevano il permesso di lavorare, come prassi di quella cura definita "ergoterapia".
Nei primi del Novecento furono introdotti metodi chimici di shock. Negli anni Cinquanta le cure prevedevano insulinoterapia, malaria-terapia, lobotomia e la contenzione fisica, poi parzialmente sostituita da rilevanti quantità di psicofarmaci.
L' "Elettroshock" (terapia elettroconvulsivante o TEC) è la provocazione di un accesso di tipo epilettico indotto dal passaggio di una scarica di corrente elettrica. Si constatavano gli effetti positivi sulla depressione.
"Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison. Dino Edison, l'inventore della macchina di introspezione con la quale si possono scoprire giacimenti di carbone, giacimenti di metalli."
"Ode voci negli orecchi?"
"Sento sempre delle voci, sono telefonista, sono impiegato al telefono."
(…) Posso vivere anche senza mangiare, sono elettrico, sono Edison."
(Carlo Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana).
Rissoso, più volte arrestato, solitario. Il "male oscuro" di Campana "manifestatosi sin dal 1900 con un'impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente con la mamma" * si manifestò con una vita errabonda, nei boschi dell'Appennino o in terre lontane.
La sua fu una esistenza dolente in cammino, dedita allo studio e alla poesia. Il 5 settembre 1906 venne internato a Imola. I medici lo dichiararono ufficialmente "matto" decretandone la perdita dei diritti civili.
* Lettera di Giovanni Campana, padre di Dino, al direttore del manicomio di Imola.
"Il medico compilatore della modula informativa che la legge richiede per mandare qualcuno al manicomio, notava di Dino nello spazio riguardante le cause fisiche e morali della malattia: -Dedito al caffè del quale è avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo-."
E continua "Esaltazione psichica. Impulsività e vita errabonda."
(Carlo Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana).
"Mi ruppero talmente la testa che io perdei la vena poetica."
Il poeta morì il 1° marzo 1932 nel cronicario, per malati "inguaribili" a causa di una "setticemia primitiva acutissima o infezione microbica diretta e virulenta del sangue", probabilmente si era ferito col filo spinato durante un tentativo di fuga.
Fu seppellito nel cimitero di San Colombano "entro il recinto dei poveri morti pazzi". I resti, recuperati nel 1946, saranno deposti nella chiesa di Badia a Settimo.
"Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt'intorno rinchiuse dalla foresta cupa."
(Dino Campana, Canti Orfici, La Verna).
"Un po' del mio sangue è rimasto attaccato alle rocce, lassù".
(Dino Campana, Lettera a Sibilla Aleramo, 30 luglio 1916).